Erika Rombaldoni, una vita da ballerina

di Silvia Sinibaldi, foto Florindo Rilli
L’arte Della Danza Tra Talento, anima E meraviglia
“La vita di una ballerina è molto impegnativa, un percorso pieno di sfide e difficoltà.” Erika Rombaldoni sorride con quell’aria leggera che accompagna i suoi passi e le movenze delle braccia, che fanno di lei il corpo e l’anima della danza. “Prima di tutto richiede molti anni di studio, almeno dieci, e comunque di studiare non si finisce mai,” continua. “Sono necessarie forza fisica e resistenza, anche per reggere la pressione psicologica, affrontare lo stress emotivo legato alla competizione, alle selezioni e alla necessità di corrispondere ai canoni estetici richiesti.”

Di Erika Rombaldoni si racconta che a tre anni avesse già deciso cosa fare. È il talento che guida certe precoci intuizioni o la meraviglia di incontrare qualcosa di magico? Erika sceglie una loro combinazione: “Il talento naturale fornisce una base, facilitando la percezione e la comprensione precoce. Mentre la meraviglia di fronte a un’esperienza straordinaria può fungere da fonte di ispirazione. Sì, talento e meraviglia credo interagiscano.”

A guardarla nelle tantissime immagini che l’hanno ritratta, o ancora meglio osservandola sul palcoscenico, Erika esprime una gioiosa adesione alla sua arte. Trasforma la fatica della dedizione e della disciplina in una leggera sostanza. Eppure, viene da sospettare che negli anni della scuola, dell’adolescenza, degli amici, dei primi amori, gli anni del motorino e del sabato sera, qualche volta abbia vacillato di fronte all’impegno estremo richiesto dalla danza.

“Mai. Neppure una volta. In tutti i cinque anni di liceo scientifico, ad esempio, ho partecipato a una sola gita con la classe. A tutte le altre non sono mai andata pur di non perdere anche un unico giorno di lezione di danza. D’altronde lo studio della danza costituiva per me una fonte di profonda soddisfazione. E in vista della carriera che volevo intraprendere non potevo desiderare altro che dedicarle assoluta priorità. Comunque c’è stato tempo anche per tutto il resto: gli amici, il motorino, i sabati sera, gli amori.”

Erika Rombaldoni cittadina del mondo o, meglio, delle capitali in un tracciato segnato dai sipari che si sono alzati sui suoi spettacoli. E allora le radici? Cagli, Pergola, Pesaro. Cosa rimane dei primi luoghi della tua formazione? “Mi accompagna sempre una certa nostalgia, un sentimento complesso e profondo che si è evoluto e manifestato in maniera ondivaga nel corso degli anni.

Credo che essere cresciuta in un piccolo centro abbia sviluppato in me un senso di comunità che continua ad accompagnarmi. Anche nelle metropoli nelle quali mi trovo a lavorare. Con la pandemia sono tornata ad avere base nelle Marche. E devo dire che, dopo ognuno dei tanti viaggi di lavoro, quando tornando a casa vedo in lontananza le mie montagne godo sempre appieno della sensazione di familiarità e sicurezza che ogni volta mi suscitano.”

Oggi definire Erika Rombaldoni una ballerina è un po’ riduttivo. La sua evoluzione professionale l’ha portata a diventare anche coreografa e regista. “A dire il vero, nella mia carriera tutti i grandi salti – perché questo sono stati, dei veri e propri balzi in avanti, un po’ improvvisi e inaspettati – sono avvenuti perché me li hanno offerti. Ho sempre creduto che questa evoluzione si sarebbe realizzata. Ma più avanti negli anni. E invece, pur continuando a danzare, senza neppure averci ancora mai pensato, iniziavo la mia attività di assistente alle coreografie.

Tra l’altro subito per uno dei più acclamati registi al mondo come Robert Carsen e in un contesto prestigioso come il Teatro Real di Madrid. Idem i primi lavori da coreografa: mi sono stati offerti in modo inaspettato, subito in teatri rinomati e in circostanze cruciali come può essere per un teatro l’apertura di stagione. Per non perdere nessuna occasione ho fatto letteralmente la pendolare tra una nazione e l’altra. Sono tornata sul palcoscenico con una più profonda consapevolezza.

E aver già lavorato come regista mi ha permesso di tornare a danzare o a coreografare con prospettive e una mentalità differenti, in un processo continuo e dinamico. Tra i cinque teatri che hanno fatto la mia storia,” continua, “non posso non nominare quello di Cagli, dove tutto è iniziato, a tre anni, con il primo saggio della scuola di danza che ora non c’è più. Io ero la più piccolina.

Il Teatro di Cagli, con il suo mentore Sandro Pascucci, mi ha dato di nuovo asilo quando con la pandemia e la conseguente cancellazione di numerosi contratti sono tornata a Cagli. La Scala di Milano e il Teatro dell’Opera mi sono molto cari: qui da bambina ricevetti dei no alle selezioni alle quali mi presentai, ma ho avuto il mio appagamento quando ci sono tornata sia come danzatrice che come coreografa.

Alla Fenice di Venezia lavoro regolarmente da tanti anni e in quel teatro, tra orchestra, coro, maestranze, ho tanti cari amici fraterni. Non posso poi non nominare lo Sferisterio di Macerata dove nel 2021 ho portato in scena un mio spettacolo, commissionato e prodotto dal Macerata Opera Festival, forse il lavoro a cui per mille motivi sono più legata. La sera in cui quello spettacolo ha debuttato mi sentivo veramente in uno stato di grazia.”

Erika Rombaldoni, una vita da ballerina
In queste immagini, la performance artistica della ballerina e coreografa Erika Rombaldoni.
Erika Rombaldoni, una vita da ballerina
Erika Rombaldoni, una vita da ballerina
Ultima curiosità: come si gestiscono i no? “È normale sentirsi delusi, frustrati o tristi per un rifiuto. Per me stessa negli anni è stato importante imparare a concedermi il permesso di sentire queste emozioni. Cerco sempre di focalizzarmi sul futuro concentrandomi sui miei obiettivi: un ‘no’ in un determinato momento non significa necessariamente una porta chiusa per sempre.”

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