Casa-museo Biagetti

di Alessandra Albarello, foto Massimo Fiorentini
Un luogo in cui il design è declinato in ogni sua forma
Anche se non c’è più la cucina rosso Ferrari dedicata a sua moglie Paola e ideata da Gualtiero Marchesi, Casa Biagetti a Ravenna respira la stessa atmosfera di quando Raffaello viveva qui con la sua famiglia. Una cuoca eccezionale, la Paola, proprio da Formula Uno, al punto che prima di venire a cena Ettore Sottsass si assicurava sempre che ci fossero le frittelle di fiori di zucca. Ed era proprio in cucina, oppure attorno al lungo tavolo sotto il portico, che accadeva tutto. Tutto, per Raffaello Biagetti, si riassumeva in un’unica parola: il design, declinato in ogni sua forma. Come del resto lui l’aveva sempre pensato, contaminandolo con l’arte, i sentimenti, i sogni e con quella sorta di pragmatismo e ironia tipici romagnoli. In quella casa ci era andato ad abitare nel 1974, appena costruita dall’architetto Danilo Naglia che per il progetto aveva seguito la sua vocazione wrightiana. D’altra parte la modernità passava allora anche attraverso la ruvidezza del cemento, gli spigoli al vivo e una pulizia di linee, fedeli a quel motto di Mies van der Rohe Less is more.

500 metri quadri di superficie suddivisa su due piani e affacciata su un parco di 2 ettari, un vero privilegio nel cuore di Ravenna. Ecco cosa è la casa-museo Biagetti.

Rimasta chiusa per oltre 10 anni dopo la morte di Raffaello, la casa-museo Biagetti è stata poi riaperta nel 2019, riscrivendo gli spazi di un’intimità famigliare per restituirli a nuovi sguardi, a nuove sensibilità. Una sorta di casa-museo che è diventata subito ispirazione per designer e architetti, grazie a un sapiente mix di pezzi unici e rari di archivio integrati con collezioni, arredi e opere d’arte già esistenti, a ricreare così una straordinaria scenografia domestica.

Con ogni singolo dettaglio a raccontare la storia unica di una grande passione non solo per l’arredo, ma anche per la vita. La voce narrante di questa avventura che ci porta a esplorare la casa-museo Biagetti, così singolare e totalizzante nel design, è Alberto Biagetti. Figlio maggiore di Raffaello, ci ha guidato in un percorso attraverso quegli spazi a lui così famigliari, indirizzando il nostro sguardo verso i pezzi più iconici.

Anche se altrove, lui ha seguito le tracce di quel padre straordinario, autodidatta, che sentiva nelle mani e nel cuore il richiamo della materia, così forte da fargli bruciare i legni africani per realizzare mobili. O da spingerlo a recuperare sulle spiagge di Casalborsetti giganteschi tronchi d’albero per trasformarli nei Mostrilli, pezzi unici come tavoli grezzi integrati da una struttura in ferro.

L’imperfezione diventava quindi perfezione, attraverso gesti epici che lanciavano inconsapevoli sfide ai canoni estetici del design, assimilabili alle influenze dell’arte povera.

Nato nel 1940 a Sant’Arcangelo di Romagna, Raffaello Biagetti aveva solo un diploma di terza media e nessuna voglia di studiare, ma un grande talento per la pittura. È stato quando è andato a lavorare nel negozio di mobili di famiglia che ha riconosciuto il suo destino, la sua strada.

E poi, nel 1988, un anno prima del Vitra Museum, quell’idea utopistica di realizzare proprio a Ravenna un Museo che, attraverso 150 pezzi iconici, raccontasse 100 anni di design.

Nella casa-museo Biagetti il design è declinato in ogni sua forma – Ravenna 01/22
In alto, Raffaello Biagetti. Seguono immagini della casa-museo Biagetti a Ravenna.
Nella casa-museo Biagetti il design è declinato in ogni sua forma – Ravenna 01/22
Nella casa-museo Biagetti il design è declinato in ogni sua forma – Ravenna 01/22
Attorno, assieme a Giovanni Klaus Koenig, Filippo Alison e Giuseppe Chigiotti, ci ha costruito una narrazione poetica, racchiudendo quell’inestimabile patrimonio in un vero e proprio tempio creato da Ettore Sottsass. Negli anni Novanta Raffaello era stato poi artefice con Alessandro Guerriero di Futurarium, un progetto visionario che aveva portato a Ravenna, lontano dalle solite mete del design, Gaetano Pesce, Ron Arad e Sottsass a lavorare con un gruppo di studenti arrivati da tutto il mondo. Gli amici di una vita che si ritrovano ora nei pezzi contemporanei che arredano questa casa, integrandosi ad altri di epoche diverse, come quadri e specchi ottocenteschi o l’antico tappeto persiano del salotto. Amava descriverlo come “un lago dove sono caduti dei petali di fiori” perché il blu e il rosso erano i suoi colori preferiti. “Andava spesso in Iran e ogni volta ci rimaneva un mese. Dopo un po’ arrivavano bilici carichi di tappeti…” ci dice Alberto. Sempre in salotto, le sedie in pelle e mogano Kentucky di Carlo Scarpa circondano il tavolo e uno specchio di Gaudí è accostato alla seduta antropomorfa in bronzo Fausto, disegnata da Novello Finotti per Gavina negli anni Settanta. Fa da contraltare un’accumulazione di Arman con i violini e la panca intarsiata Archena di Joe Tilson per Zanotta, mentre sulla libreria è esposta la rara collezione di miniature Woka degli anni Settanta. Dappertutto, le fragili cromie dei vetri di Borek Sipek si alternano alle collezioni realizzate da artisti per Meta Memphis, o ai pezzi unici di Gaetano Pesce. Alcuni oggetti sono numerati e fanno parte di edizioni limitate, altri sono preziose riedizioni come la vetrinetta Bauhaus della cucina che contiene un piatto di Pierre Alechinski degli anni Venti. Una casa che è una sedimentazione di storie, crocevia di incontri tra persone, tra arte e design. L’ampia scala che conduce al piano superiore culmina con una parete su cui campeggia un enorme dipinto di Mattia Moreni, grande amico di Raffaello. Qui, le camere da letto si affacciano tutte su un unico lato di un lungo corridoio che si trasforma in galleria, speculare a quello del pianterreno. Anche nelle stanze sono inseriti alcuni arredi iconici della storia del design, mescolati a opere d’arte: una scultura di Enrica Borghi, un’opera di Sandro Chia, le surreali lampade Cajones e Muletas di Salvador Dalí, la Superleggera di Gio Ponti, l’appendiabiti Hang It All di Charles & Ray Eames, solo per citarne alcuni. In quella che era la camera di Alberto Biagetti, dell’arredo originale è rimasto solo il lampadario Venini degli anni Sessanta ed è lui a spiegarci il motivo: “È l’unica stanza di cui ho voluto cambiare la disposizione dei mobili, perché mi faceva un certo effetto rivederla. In realtà però quando ritorno qui, mi sento di nuovo a casa mia.”

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