Sono le imprese nate per iniziativa di ex studenti di Ingegneria biomedica. Una facoltà che sforna ogni anno nuovi laureati molto richiesti da un settore in forte crescita. Se non possiamo parlare di un distretto del biomedicale vero e proprio, certamente di un seme molto benefico per il territorio sì. Un seme nato sul terreno accademico ingegneria biomedica, cresciuto grazie alle idee e alla caparbietà degli ingegneri e che oggi si innesta con successo nel mondo produttivo.
Una delle esperienze che più ha fatto parlare di sé, con il ‘front-man’ del gruppo inserito da Forbes nei 100 under 30 più influenti del 2020, è Vibre, acronimo di Virtual Brain Experience. “All’inizio, abbiamo puntato molto sull’integrazione tra l’intelligenza artificiale e le interfacce neurali” dice Raffaele Salvemini di Vibre. “Con l’obiettivo, ad esempio, di sviluppare sistemi per la riabilitazione dei pazienti colpiti da ictus.
Poi ci siamo resi conto che la realtà vera era ancora troppo acerba per quella virtuale e che le due tecnologie – le interfacce e le VR – si sviluppavano a velocità troppo diverse tra di loro. Continuando a lavorare sulle interfacce neurali abbiamo messo a punto un dispositivo. Una sorta di cerchietto da mettere sulla fronte, di 20 o 30 grammi di peso, con 5 sensori che permettono di captare e analizzare l’attività del cervello. L’interfaccia neurale a contatto con le onde del cervello ricava una sorta di impronta unica e distintiva. E questa impronta è simile a una forma di arte astratta.”
Da qui è nato il primo progetto, Brainart, che ha catapultato l’azienda alla ribalta nazionale. Accanto a Brainart, Vibre ha sviluppato anche un’applicazione delle interfacce neurali che oggi trova ampio spazio nelle imprese private e negli ospedali. Risvolti pratici di ingegneria biomedica.
“Con l’interfaccia siamo in grado di misurare la fatica analizzando l’attività della corteccia prefrontale. E fornire dati che poi vengono utilizzati per ridurre il rischio di errori. L’abbiamo testata in passato sui piloti di Formula 1. E la stiamo utilizzando ora per Edison, per misurare la fatica dei tecnici addetti alla manutenzione delle pale eoliche. Ma anche nelle sale operatorie dell’ospedale di Ferrara per misurare la fatica dei chirurghi. Su questo stiamo curando una pubblicazione ad hoc.”
Ad annoverare clienti come la NASA e alcune tra le più prestigiose università del mondo è poi Elements. Impresa che si occupa di progettazione elettronica e microelettronica in ambito di ricerca scientifica con un particolare focus sull’elettrofisiologia. Ovvero, sul comportamento elettrico delle cellule. Elements sviluppa l’elettronica che serve per far funzionare i nanopori. Si tratta di piccolissimi sensori in grado di leggere la struttura di molecole di varie tipologie, compreso il DNA. L’iniziativa è partita da un gruppo di ricerca nel campo dei nano sensori attivo proprio al Campus di Cesena, per arrivare alla costituzione dell’azienda nel 2013, anche grazie ai diversi contributi resi da Spinner, Startcup Competition e CesenaLab.
“Fin da subito,” dice Federico Thei, CEO di Elements, “abbiamo stabilito delle collaborazioni con aziende estere. Che ci hanno permesso di crescere velocemente e di sviluppare il nostro mercato. Oggi l’azienda impiega 17 persone, in buona parte ingegneri ma anche biologi molecolari. La progettazione e produzione avviene tutta a Cesena. E presto avremo un desk a Milano presso il Mind (Milano Innovation District), in collaborazione con l’Università di Milano. Attraverso collaborazioni con professionisti locali ci stiamo espandendo anche negli USA.”
I ricercatori di Elements sono stati fin dall’inizio innovativi e lungimiranti nel proprio settore, specialmente nel sequenziamento del Dna, tanto che “le nostre tecnologie oggi sono molto richieste. Specialmente dalla Silicon Valley. E siamo coinvolti in molti progetti di ricerca europei e americani. In particolare con il JPL della Nasa, che prevede di utilizzare i nanopori sulle prossime sonde per l’esplorazione spaziale, con lo scopo di cercare tracce di vita sui residui di ghiaccio presenti su Marte e su lune di pianeti del sistema solare.”
A fare un po’ storia a sé in fatto di ingegneria biomedica è IBD, Italian Biomedical Devices, che ha sede a Forlì. E ha appena inaugurato, a San Martino in Strada, una sede da 1.600 mq di cui 700 dedicati alla ricerca e sviluppo. L’idea di IBD è partita dall’esperienza di uno dei soci, il medico Corrado Ghidini, che a Londra aveva studiato il mercato delle dialisi per mettere a punto un macchinario a basso costo destinato ai paesi emergenti.
Da questo progetto nasce poi l’azienda che oggi ha due divisioni, quella delle dialisi e quella dei respiratori polmonari messi a punto a tempo record nel 2020 per rispondere alle emergenze del Covid e poi prodotti e utilizzati in diversi ospedali anche all’estero. “Oggi,” dice Andrea Visotti, R&D manager e ingegnere biomedico laureato a Cesena, “IBD si colloca tra i cinque produttori di impianti di dialisi al mondo. La nostra macchina è di dimensioni ridotte e quindi permette di avere più postazioni. Inoltre abbiamo fatto delle migliorie idrauliche che rendono il montaggio più semplice e ci consentono di spedirle ovunque.”
IBD, sebbene non abbia seguito il percorso delle altre aziende, è oggi sede di tirocinio di molti ingegneri biomedici che studiano a Cesena e ha scelto Forlì anche per la vicinanza alla facoltà di medicina. Un cerchio che si chiude e unisce, a tutto tondo, ricerca, produzione e dialogo con chi poi quelle tecnologie le dovrà applicare in futuro per portare la medicina a livelli più alti.