Fabrizio Barnabè, in arte Il Romagnolista, è uno di questi ultimi: un divulgatore che sui social – tra reel, vocaboli dimenticati e riflessioni in dialetto – sta riportando in vita l’anima della Romagna.
Il romagnolo è una lingua che sembrava destinata a fare solo folclore da osteria e invece oggi emoziona. “Ricevo messaggi di persone che si sono commosse ascoltando un reel in dialetto,” racconta, “e non solo romagnoli. Anche chi si avvicina da ‘straniero’, come un ragazzo lombardo che mi ha scritto dicendo che il romagnolo lo ipnotizza. È come se il suono di questa lingua avesse in sé qualcosa di magico.”
Il profilo Instagram de Il Romagnolista raccoglie ogni settimana pensieri, note linguistiche, ma soprattutto voci. Voci dimenticate, voci lungamente taciute. Il linguaggio dei post e dei reel è spontaneo: “Nascono da quello che io chiamo ‘pensierini’,” dice Fabrizio Barnabè, “ma poi, per come suonano in romagnolo, sembrano poesie. Eppure, non nascono come testi poetici. È la lingua che si porta dentro poesia e ironia in maniera automatica.”
Tra la lingua dei nonni e la visione c’è l’istinto, e c’è il presente. “Alla fine ho seguito un impulso, nella voce e nelle radici sento qualcosa che richiama l’antico, la struttura profonda delle cose. Ma da lì si può guardare all’oggi. E anche al futuro.”
Quel futuro per Fabrizio Barnabè non è solo digitale. È reale, tangibile, geografico. “Sono un megalomane, lo so. Ma il mio sogno è creare, nelle città delle sette sorelle di Romagna, dei centri linguistici e culturali dove la lingua romagnola sia al centro: in poesia, teatro, cinema, musica. Veri luoghi di aggregazione.”
Nel frattempo, i corsi di romagnolo che tiene regolarmente raccolgono decine di persone. Non sono pensati per emozionare, eppure succede. “Alla fine dei corsi mi è capitato più volte di vedere occhi lucidi, persone in lacrime. E non lo spiego mai come un ‘merito’ mio. Lo leggo come un dono ricevuto, come un atto di fiducia. Chi studia il romagnolo oggi lo fa anche per motivi profondi, che hanno a che fare con il vissuto, con il passato, con la morte e con la vita.”
Questa consapevolezza è arrivata per gradi. All’inizio c’era una necessità pratica: produrre materiali didattici per i suoi corsi. Poi è emerso un vuoto. “Mi sono reso conto che non si sentiva più parlare in romagnolo,” spiega. “Era stato relegato alla trivialità, all’intrattenimento leggero, alla battuta da bar. Invece c’era l’anima di una cultura lì sotto. Ho avuto l’urgenza di ridarle spazio.”
Dentro al progetto del Il Romagnolista non c’è solo una voce individuale, ma una coralità. “Voglio dare voce agli antenati e alle antenate di Romagna. C’è una lunga serie di romagnoli e romagnole che non hanno potuto comunicare tutto. A un certo punto è stata tolta loro la voce. Il passaggio all’italiano è stato violento. Dopo il boom economico, il dialetto è diventato qualcosa di cui vergognarsi. E molti nonni sono diventati bruschi, silenziosi, perché avevano perso la possibilità di esprimersi.” Anche per questo Barnabè sta lavorando a una serie di video dedicati a voci femminili. “Mi piace mettermi nei panni che non sono miei. Sento che il mio compito è restituire quella voce.”
E se dovesse scegliere una sola parola da donare ai lettori, non avrebbe dubbi: maraveja. “In romagnolo non è solo ‘meraviglia’, è stupore. È la capacità di sorprendersi per qualcosa di bello che può ancora succedere.” Il romagnolo questo sentimento lo tiene vivo.